google.com, pub-1709475914964886, DIRECT, f08c47fec0942fa0 Domodossola News: settembre 2022

In arrivo la nuova guida del Sacro Monte Calvario di Domodossola

 

La nuova edizione della guida al Sacro Monte Calvario di Domodossola sarà presentata domenica 18 settembre in occasione della Festa di santa Croce organizzata dalla parrocchia Sacro Cuore e San Quirico dei Padri rosminiani.

«Si tratta di una versione aggiornata e ampliata della guida curata dallo storico rosminiano Tullio Bertamini – spiega Francesca Giordano, presidente dell’Ente di gestione dei Sacri Monti – il nuovo volume è stato realizzato contestualmente al restauro della cappella V, dedicata al “Cireneo che porta la Croce” e alla valorizzazione del tratto inferiore dell’itinerario storico-religioso del Sacro Monte Calvario di Domodossola finanziato dalla Fondazione Cariplo. Il nuovo volume è dotato di un corredo fotografico più ampio e di diverse integrazioni che riguardano gli aspetti storico artistici. Sono particolarmente emozionata di poter presentare questa nuova guida avendo una formazione rosminiana e un profondo legame con Domodossola».

La patronale di domenica 18 prevede, dalle 10, la messa solenne. A seguire è prevista la processione con la reliquia di Santa Croce e la benedizione della città dal Belvedere, con l’accompagnamento del Corpo musicale della città di Domodossola. Poi il pranzo nel refettorio dei Rosminiani, a cui seguiranno alle ore 15 i Vespri e la presentazione della nuova guida, in sala Bozzetti, mentre alle 21 i festeggiamenti saranno conclusi con un concerto. Inoltre, per tutta la giornata, nel cortile adiacente la portineria del convento, sarà esposto il quadro del 1672 raffigurante l’antico percorso della Via Crucis partendo dalla Madonna della neve.

 verbanonews.it

Montagna senza barriere: in 300 da tutta Italia a Domodossola per il raduno “A ruota libera”

 



Nel weekend si è svolta l’iniziativa promossa dal Cai nazionale e dal Seo Cai domese

La Stampa

Giovedì 8 settembre 2022 alle ore 17 l’Atletica Avis Ossolana organizza in Piazza Mercato A Domodossola 3 mini camminate per bambini dai 5 agli 11 anni



Sacro Monte Calvario: restauri ai tetti in beola


DOMODOSSOLA - 26-08-2022 -- Sarà la ditta Traglio Emanuele con sede a Forno di Valstrona, ad eseguire i lavori di manutenzione straordinaria ai tetti delle cappelle IV e X al Sacro Monte Calvario di Domodossola. Per un importo di poco superiore ai 22mila euro, le cappelle IV della via Crucis (Incontro con la Madre - foto) e X (Gesù spogliato e abbeverato di fiele) saranno protette dalle intemperie. Lavori solo apparentemente semplici, che richiedono invece grande competenza e una sapienza delle tecniche tradizionali che arriva da lontano. "Ogni Sacro Monte rappresenta una realtà a sé e la tipologia delle coperture e dell’orditura lignea varia a seconda dei luoghi - si legge nella determina di affidamento dei lavori -. La tipologia dell’intervento sulle coperture richiede pertanto l’affidamento dei lavori a ditte locali che dimostrino accertata abilità e competenza nello svolgimento di analoghi interventi. La ditta Traglio è una maestranza altamente specializzata nella posa di beole secondo la tradizionale tipologia di posa locale che già in passato ha eseguito lavorato sulle coperture delle cappelle del Sacro Monte di Ghiffa e sta eseguendo le manutenzioni delle coperture del Sacro Monte di Domodossola".
24newsonline.it

La nuova piazza della Madonna della Neve riqualifica Domodossola

 

Terminati i lavori di pavimentazione, i domesi si sono riappropriati nuovamente della piazza della Madonna delle Neve che è stata aperta ai pedoni riqualificata. I primi turisti in visita nella città dopo l’intervento scattano le foto, ma non solo loro, gli stessi domesi si fermano estasiati a guardare questo angolo della città che ha cambiato letteralmente aspetto e ad immortalare la piazza con il cellulare.

Si tratta di una parte di un grande progetto denominato dal Borgo della Cultura al Sacro Monte Calvario, frutto di un accordo di programma che ha visto partecipi il Comune, la Sovrintendenza, l’Ente di gestione Sacri Monti, la Parrocchia e i Rosminiani, che ha ottenuto un finanziamento della Fondazione Cariplo per 1,1 milioni di euro. Un intervento che renderà più appetibile dal punto di vista turistico la città. In pratica ci sarà una riqualificazione della viabilità che da piazza Tibaldi porta ai piedi della via Crucis del Calvario,la pavimentazione con serizzo e palissandro è in linea con lo stile degli interventi già eseguiti in via Galletti e corso Fratelli di Dio.

Un investimento di oltre 3 milioni di euro e un progetto di grande valenza per il turismo in generale e per quello religioso in particolare.

sdnovarese.it

Restauri a tre cappelle del Calvario di Domodossola: “Ma servono molti più soldi”

 Interventi al tetto e agli affreschi


La Stampa

Domosofia /14 Settembre 2022 ore 10 Auditorium Floreanini: "Storie vere al 97%. E il resto? Il resto è curiosità e meraviglia". Incontro per le scuole primarie. Con Alessandro Barbaglia Scrittore.




STORIA/ Quel patto tra partigiani e nazifascisti per liberare Domodossola

 


Un breve passo indietro: con il ritorno della buona stagione, la presenza di gruppi partigiani – che nell’autunno del ’43-’44 si erano molto ridotti negli effettivi – numericamente riprese vigore, con uno stillicidio di azioni che impegnarono duramente le guarnigioni fasciste e tedesche le quali, soprattutto nei piccoli paesi, furono investite da attacchi cruenti. Inoltre il 25 maggio 1944 era scaduto il termine per presentarsi alla chiamata di leva da parte dei giovani della classe 1925 e le autorità della Repubblica Sociale si erano rese conto che molti non avevano aderito alla chiamata “imboscandosi” ovvero salendo in montagna. Nel mese di giugno le autorità nazifasciste decisero così di organizzare un vasto rastrellamento di tutta l’area ossolana impegnando almeno 3mila uomini appoggiati da mezzi notevoli. Furono due settimane di autentico calvario per le formazioni partigiane intrappolate sulle montagne e negli alpeggi, senza rifornimenti e circondate da forze soverchianti. Il rastrellamento si concluse con la cattura di alcune centinaia di partigiani, molti dei quali vennero passati per le armi. Il grande rastrellamento di giugno fu un’operazione sanguinosa, ma non risolutiva per le forze fasciste, anche perché buona parte dei reparti partigiani riuscirono comunque a sganciarsi riparando in Svizzera e poche settimane dopo la situazione organizzativa e numerica delle bande era ritornata a livello dei mesi precedenti. Il rastrellamento ebbe però gravi effetti sul territorio: baite, alpeggi, interi paesi bruciati e dure rappresaglie che portarono la popolazione civile a sentirsi più vicina al movimento partigiano.

Gli accordi di Omegna
Ad agosto vi furono una serie di abboccamenti tra i diversi reparti partigiani con un accordo di massima per la spartizione territoriale e per il controllo delle diverse vallate ossolane. Non solo: si iniziò a parlare di un’azione concentrica e coordinata contro i vari capisaldi fascisti, ipotizzando un successivo concentramento verso Domodossola e con l’obbiettivo di liberare l’intera area. Rimasero peraltro profonde divergenze. Scrive Superti l’8 agosto ad alcuni amici svizzeri: “Ho sostenuto una lotta fortissima con i comunisti di Moscatelli e Pippo, pur trattando con loro e definendo intese. Con Marco Di Dio e Rutto invece accordo completo”. Ma il 31 agosto Superti è su posizioni ancora più caute su una possibile collaborazione con le brigate “Garibaldi”: “La collaborazione non viene da subito… chi dice di un progettato organismo unico con loro (i comunisti, ndr) dice cose ancora sulla carta, le polemiche ed i malintesi sono ancora numerosi…” (Barlassina-Tagliarino in Cattolici ed Azzurri, Isrn, Novara 1973, pag. 66). Nello stesso giorno avviene un fatto abbastanza anomalo e poco ricordato: un accordo ufficiale tra le formazioni “autonome” ed i tedeschi per la creazione di una “zona franca” intorno agli stabilimenti industriali di Omegna in cambio dell’approvvigionamento di materie prime ed alimentari alle popolazioni della zona che le autorità della Rsi avevano bloccato da due settimane sostenendo che la gran parte delle derrate andassero a finire nelle mani dei partigiani. Venne redatto un vero e proprio trattato fra le parti (l’accordo fu concluso senza l’intervento delle autorità fasciste) volto a riconoscere in modo indiretto l’effettiva sovranità partigiana sulle alture circostanti. Contestualmente, i tedeschi si impegnavano a non più operare con azioni di contro-guerriglia, ma i partigiani parimenti a non disturbare più le truppe tedesche del Cusio. Avuto conoscenza dell’accordo (preso senza interpellarli) i “Garibaldini” insorsero e la tensione crebbe tra i diversi gruppi partigiani e divenne ancor più forte quando la direzione nazionale del Cnl di Milano bollò l’iniziativa come politicamente insostenibile e ne chiese la revoca. Sta di fatto che alla fine di agosto del ’44 la presenza delle brigate Garibaldi era preponderante in Valsesia, ma nell’Alto Novarese piuttosto ridotta, limitandosi al controllo della Valle Antrona sopra Villadossola ed ad alcuni reparti in Valle Cannobina, al comando di Mario Muneghina, che dette vita alla formazione “Valgrande Martire”.

La liberazione di Domodossola
Le operazioni che portarono alla liberazione di Domodossola e conseguentemente alla nascita della Repubblica dell’Ossola furono causa di grosse polemiche all’epoca dei fatti ed anche successivamente fino agli anni 70, quando l’interesse per questi avvenimenti venne a scemare anche per la progressiva scomparsa dei diretti protagonisti. “È indubbio infatti che Domodossola non venne liberata con una azione militare, ma dopo una serie di accordi tra gli esponenti locali fascisti ed i tedeschi da una parte e le brigate partigiane ‘autonome’ dall’altra, con il diretto intervento del clero locale. I “garibaldini”, fedeli alla direttiva del Cln “con il nemico non si tratta ma si combatte” sollevarono immediatamente – ed anche in seguito – grosse riserve su questo modo di agire; gli “autonomi” ribatterono sempre che la necessità di risparmiare alla città ed alla popolazione una battaglia prevedibilmente cruenta li aveva spinti a tale risoluzione” (Mario Giarda, La Resistenza nel Cusio Verbano Ossola, Vangelista, Milano 1975, pag. 120). Un esame accurato degli avvenimenti porta addirittura a pensare che l’obiettivo principale di questa azione sia stato proprio quello di estromettere i “garibaldini” dall’occupazione della città – prendendoli in contropiede anche sui tempi – per limitarne poi la loro presenza militare e politica in tutta la zona. Secondo una documentazione proposta dall’Istituto Storico della Resistenza di Novara, si avrebbe conferma di questo da alcuni documenti – peraltro non specificati – conservati anche dall’Archivio di Stato di Washington. Siamo comunque ai primi giorni di settembre del ’44: si stringe progressivamente la morsa intorno ai piccoli presidi fascisti dei paesi di fondovalle, a poco a poco le varie teste di ponte nelle vallate minori vengono abbandonate ed i militari della Rsi ripiegano sui centri principali a Domodossola, Villadossola, Premosello, Masera. A Borca di Macugnaga, in Valle Anzasca, a comandare il presidio c’era un giovane tenente di cui si sentirà parlare: Giorgio Almirante, poi leader politico del Movimento sociale italiano (Msi) che nelle sue memorie ricorda lo sganciamento – avvenuto senza sparare un colpo – ed il ridispiegamento del suo reparto alla periferia di Verbania. La Valle Formazza viene evacuata dai fascisti, poi il 4 settembre è la volta della Valle Antigorio mentre la Valle Antrona era già in mani partigiane (della brigata Garibaldi) ed alla fine si arrendono anche il presidio di Santa Maria Maggiore e Toceno (Val Vigezzo) i cui militari fascisti e tedeschi ottengono di poter passare in Svizzera e da qui alcuni vengono rimpatriati in Italia da Locarno, via lago.

(3 – continua)

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Le principali formazioni partigiane attive in Ossola tra ispirazioni ideologiche contrastanti, collaborazione e conflitti. E vittime

 


La morte di Filippo Beltrami (Megolo, 13 febbraio 1944) fu favorita dal capo partigiano comunista Vincenzo (“Cino”) Moscatelli?
È uno dei tanti capitoli tuttora controversi della Resistenza, anche se a guerra finita (dicembre 1946) – ma era già iniziato lo scontro politico tra democristiani e comunisti – un giornale vicino alla Dc (La Verità) accusò apertamente Moscatelli non solo di non essere intervenuto a rompere l’accerchiamento dell’alleato, ma addirittura di aver ucciso la staffetta che Beltrami aveva inviato per chiedere rinforzi anche perché riteneva imminente il loro arrivo.

STORIA/ Quel patto tra partigiani e nazifascisti per liberare Domodossola (senza i "rossi")
Limitiamoci però all’essenza politica, ovvero al chiaro tentativo da parte di Moscatelli – che prese corpo progressivamente dalla fine del ’43 – non solo di ridurre l’influenza di una banda “concorrente”, ma soprattutto di un leader come Beltrami, capace di calamitare intorno a sé numerosi giovani borghesi che salirono in montagna (in inverno!) pieni di entusiasmo ed idealità, ma anche senza valutarne le conseguenze e soprattutto senza un’adeguata preparazione.

Le brigate comuniste si dimostrarono invece da subito superiori per inquadramento e disciplina, ma soprattutto perché alla lotta armata faceva da supporto un profondo lavoro politico ed anche una costante verifica ideologica degli organici. È un aspetto importante in vista di quanto avverrà nei mesi successivi: i “garibaldini” non esitavano nei colpi di mano esponendo la popolazione civile alle rappresaglie, i gruppi cattolici e “badogliani” sembrano invece avere una propria etica nelle azioni, tenendo senz’altro in maggior conto le conseguenze della reazione fascista e tedesca. Nei mesi successivi e prima del fatale scontro di Megolo (13 febbraio 1944), Beltrami unisce le proprie forze a quelle di un altro leader della resistenza cattolica, il maggiore dell’esercito Alfredo Di Dio, ed insieme cominciano a rappresentare una potenziale una minaccia per l’egemonia comunista della zona.
L’8 gennaio del 1944 Beltrami si incontra per alcune ore ad Armeno (Novara) addirittura contestualmente con il capo della provincia (il già ricordato prefetto Dante Tuninetti), il vescovo mons. Ossola ed il questore di Novara. Presente è anche l’altro capo partigiano, Alfredo Di Dio, e questo silenzioso mutuo riconoscimento tra le parti crea scompiglio e reazioni nel campo della Resistenza. Si parla a lungo di un accordo per la gestione del territorio e dell’ipotesi di creare una zona smilitarizzata ai piedi delle Alpi, ma è impossibile sapere quale strada avrebbe preso questo tentativo di accordo: Beltrami verrà ucciso a Megolo solo un mese dopo.

Alfredo Di Dio e la “Valtoce”
Alfredo Di Dio – già responsabile militare della brigata “Beltrami” dopo l’unificazione delle due unità – si salvò a Megolo perché detenuto nel carcere di San Vittore, a Milano, dove era stato intercettato dalla polizia fascista. Era infatti giunto nel capoluogo lombardo con un salvacondotto emesso dalle autorità fasciste di Novara e con l’impegno dichiarato (gli accordi sembra fossero stati presi proprio ad Armeno) di verificare la possibilità di creare zone franche ai piedi delle Alpi in altre province. In effetti Di Dio fu liberato il 6 marzo e tornò subito in Valstrona, dove riorganizzò una propria unità di impronta democristiana e cattolica, in evidente contatto con il clero locale. Di Dio era anche un militare di carriera con una propria vivace impronta culturale ed era – soprattutto – notoriamente un cattolico anticomunista, tanto che la sua formazione “Valtoce” raccolse molti esponenti dell’Azione Cattolica lombarda e novarese che salivano dalla pianura ed erano avviati in montagna dai parroci della zona. Una presentazione della sua linea è chiaramente enunciata da un documento programmatico edito il 27 settembre 1944, proprio durante la Repubblica dell’Ossola e pochi giorni prima della sua morte: “Innanzitutto siamo dei militari. Non vogliamo rilevare il nomignolo di ‘Opera pia’ che talora sentiamo serpeggiare nei nostri confronti. Ma se quei signori (l’allusione è alle formazioni partigiane comuniste, ndr) con ‘Opera pia’ intendono alludere alla dirittura morale del nostro Comando oppure all’assidua protezione ed all’interessamento che da sempre abbiamo inteso per la popolazione civile, allora noi ne siamo fieri. Noi non discutiamo le varie tendenze politiche ed i vari colori (…), ne facciamo una questione di onestà e serietà. Definire il nostro programma è semplice e breve e si riassume nel motto della nostra formazione: ‘la vita per l’Italia’. Per ora siamo solo dei militari e non vogliamo avere alcuna ingerenza di partito…”.

Dionigi Superti e la “Valdossola”
La terza delle formazioni “autonome” operanti nella zona fu il “Battaglione Valdossola” al comando del maggiore Dionigi Superti. La caratteristica principale dell’unità fu anche in questo caso una assoluta indipendenza da qualsiasi partito politico – pur ammettendo Superti che chiunque dei suoi membri facesse una eventuale propria propaganda politica all’interno dell’unità – e questo atteggiamento fu guardato con profonda diffidenza anche dai vertici del Cln di Milano che la consideravano politicamente “sospetta”. D’altronde la figura di Superti è emblematica e controversa: aviatore della squadriglia Baracca nella prima guerra mondiale, legionario fiumano, fascista mai iscritto al Pnf, probabilmente agente segreto italiano (qualche autore lo ritiene invece agente del Sis inglese), residente all’estero dal 1936 al 1940, massone, Superti raccolse l’eredità di Beltrami ed insieme a Bruno Rutto ricostituì un’unità nella primavera del ’44 (chiamata proprio “Beltrami”) politicamente rigidamente autonoma, ma collegata operativamente con la “Valdossola”.

Le brigate “garibaldine”
In campo partigiano vi erano però altre forze di chiaro segno politico, ad iniziare dalle “Brigate Garibaldi”, formalmente autonome ma di fatto strettamente collegate al Pci (Partito comunista italiano) e che in Ossola vedranno impegnati numerosi esponenti di quel partito. A guerra finita, alcuni diventeranno noti leader politici comunisti: da Amendola a Pajetta, da Secchia a Moscatelli. Queste unità “garibaldine” si svilupparono inizialmente in Valsesia, dove di fatto controllarono l’intera vallata e di qui si spinsero poi verso Omegna e la Valstrona per poi spandersi in Ossola, soprattutto dopo la scomparsa del capitano Beltrami. Inquadrate da commissari politici, efficaci nella diffusione della stampa clandestina, collegate strettamente con i Gap (Gruppi di azione patriottica) della pianura e che nelle città effettuavano audaci colpi di mano ed eliminazioni fisiche di esponenti fascisti, i “garibaldini” non esitarono a tenere rapporti anche duri con le popolazioni delle zone da loro controllate, né mostrarono clemenza con i nemici catturati, adottando spesso il metodo del terrore anche nei confronti delle popolazioni civili. Numerosi furono a questo proposito gli scontri e le divergenze tra le diverse formazioni partigiane, anche se nella primavera del ’44 si cercò – con tutta una serie di incontri e non senza continue, profonde divergenze – di predisporre un piano insurrezionale comune. Difficile dare una valutazione numerica delle singole unità partigiane, perché furono sempre di numero estremamente variabile e legato sia alle contingenze stagionali sia anche al passaggio di uomini da questa o quella formazione. Si può parlare comunque di diverse centinaia di uomini, dei quali però solo una parte effettivamente combattenti, e dei quali le brigate Garibaldi rappresentavano da sole circa il 50 per cento. Una stima attendibile fa salire a 1000-1200 i partigiani operanti complessivamente in Valdossola all’inizio di settembre del ’44.
(2 – continua)
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Repubblica dell’Ossola: un esperimento politico partigiano che 78 anni fa aveva in sé tutte le caratteristiche della futura Italia repubblicana

Alla fine dell’estate del 1944 nasceva e moriva in poco più di 40 giorni una interessante esperienza politica che viene ricordata come la Repubblica partigiana dell’Ossola.

Ormai scomparsi i personaggi che vi diedero vita, credo che più di una parentesi militare sia stata una prova generale di quella che anni dopo divenne l’Italia repubblicana, anticipando anche la svolta occidentale ed anticomunista del 1948 che porterà l’allora Pci a un lungo periodo di opposizione. Quella che segue è una ricostruzione dei fatti che portarono alla nascita di questa prima realtà democratica.

Le valli dell’Ossola, a nord del Lago Maggiore, nell’attuale provincia di Verbania rappresentano un’area di circa 1.500 kmq. Sono un grande triangolo che si incunea nel territorio elvetico verso il Cantone Vallese al di là delle Alpi e il più facilmente raggiungibile Canton Ticino.

La vallata principale del fiume Toce è ampia, pianeggiante, oggi molto antropizzata, e si dirama in numerose vallate minori che salgono a raggiera verso le Alpi ed hanno il loro centro economico e geografico in Domodossola.

Montagne, a differenza di oggi, allora molto più abitate, attraverso le quali è sempre stato relativamente facile passare in Svizzera, nazione neutrale durante la seconda guerra mondiale.

L’area, popolata anche allora da circa 80mila persone, oggi concentrate molto di più nel fondovalle, non disponeva di risorse alimentari od agricole sufficienti e dipendeva quindi totalmente, per gli  approvvigionamenti, da sud. Si trattava allora di una zona molto industrializzata rispetto alla media italiana. L’Ossola “esporta” ancora oggi energia idroelettrica e prodotti metallurgici di trasformazione, ma  necessita di approvvigionamenti costanti di materia prima.

Dal punto di vista militare e strategico l’area non era assolutamente rilevante, salvo che per la facilità appunto di passare in Svizzera, aspetto importante per il contrabbando ma anche l’espatrio di ebrei, resistenti, prigionieri di guerra.

Va ricordato anche che l’ampio polmone verde centrale della provincia – ora Parco Nazionale della Val Grande – era allora abitato da numerosi montanari ed esistevano molti alpeggi presso i quali era possibile trovare rifugi di emergenza, in buona parte distrutti nel rastrellamento tedesco del giugno 1944.

Era comunque possibile organizzare colpi di mano anche contro località importanti (Domodossola, Villadossola, Cannobio) rimanendo “coperti” fino a poche decine di metri dall’obbiettivo, con molti abitanti dei paesi delle valli o delle frazioni dei centri maggiori che passavano alternativamente in zone controllate dalle due parti belligeranti anche più volte nello stesso giorno, rendendo di fatto difficili o superflui i controlli.

La gran parte della gente – e me lo ha sempre ricordato di chi visse quegli anni – non stava né di qua né di là, semplicemente sperava che la guerra finisse presto cercando intanto di superare i momenti più duri. In ogni famiglia vi erano poi infiniti casi personali: fratelli divisi e militanti sui due fronti, dissensi, nuclei famigliari divisi dagli eventi.

È la pagina vera e spesso poco conosciuta di un conflitto vissuto con convinzione da minoranze e sopportato con angoscia dalla gran parte della popolazione, che spesso non aveva mai avuto occasione di conoscere altro che il fascismo e la sua martellante azione propagandistica. Così come ogni azione partigiana rischiava di ripercuotersi poi sulla popolazione civile, creando lutti, rappresaglie, vendette che – come avvenne soprattutto dopo il 25 aprile – poco o nulla avevano di politico quanto spesso di conflitto od odio personale.

All’inizio non vi furono azioni partigiane degne di nota, anche se si raccoglievano in montagna – a volte sperando di poter passare facilmente in Svizzera – nuclei di civili provenienti da diverse zone del Nord Italia, ma poi sempre più frequentemente militari sbandati dopo l’8 settembre, renitenti alla leva di Salò, primi nuclei di resistenti. Anche in questo caso erano spesso ragazzi giovanissimi che, come avveniva sull’altro fronte, si trovavano improvvisamente adulti davanti allo sfascio della nazione dopo l’8 settembre. Da sottolineare come molti giovani partigiani salivano in montagna per sfuggire alla chiamata alle armi della repubblica fascista o instradati da amici, parroci, compagni di studi.

“Spesso – la circostanza mi era stata confermata qualche anno fa dal comandante “Arca”, al secolo Armando Calzavara, mio amico personale – questi ragazzi arrivavano in treno a Domodossola o in battello a Verbania dalla Lombardia e cercavano di capire dove fossero i partigiani per poi mettersi in strada, a piedi, verso le montagne. Prima o poi li trovavano, ma innanzitutto rischiavano di brutto e poi non avevano alcuna idea di cosa fosse sul serio fare la guerra. Tante volte li ho rimandati a casa, chissà se ci sono tornati”.

Più organizzati, invece, gruppi di giovani cattolici vicini alle parrocchie lombarde – in particolare di Milano e della Brianza – che venivano instradati tramite una “rete” cattolica e che infatti rafforzarono soprattutto le brigate partigiane “azzurre”.

La prima azione degna di nota fu la “battaglia di Villadossola” avvenuta l’8 e 9 novembre 1943, quando un gruppo di circa 20 partigiani entrarono in paese scendendo dall’impervia e boscosa Valle Antrona senza attaccare – almeno in un primo tempo – il presidio fascista, ma razziando l’ufficio postale e la direzione di due stabilimenti metallurgici dove furono prelevati fondi cospicui e fu anche ucciso uno dei dirigenti.

I partigiani si disimpegnarono il giorno stesso risalendo la vallata e lasciando sul terreno alcuni morti, oltre ad uccidere alcuni tedeschi sulla via della ritirata, atto che nei giorni successivi diede vita ad una sanguinosa rappresaglia.

Il risultato militare fu minimo, ma senz’altro spezzò il periodo di relativa calma che si era protratto da settembre, preoccupò i gruppi fascisti posti a presidio dei singoli paesi (e spesso facilmente isolabili) ed alla popolazione diede un forte segnale di presenza partigiana nella zona.

Un episodio simile si ebbe anche ad Omegna il 30 novembre, ma questa volta l’attacco fu opera di due reparti partigiani molti diversi tra di loro: un reparto di “garibaldini” (comunisti) provenienti dalla Valsesia ed un altro di “autonomi” al comando dell’ex ufficiale dell’esercito architetto Filippo Beltrami, un professionista milanese sfollato nella zona.

Mentre i primi si limitarono ad una puntata in città prelevando armi e derrate alimentari, Beltrami assunse invece per qualche giorno il comando in città – dove pur restarono, indisturbati, ma consegnati in caserma, alcuni reparti fascisti – arrivando (l’episodio non è segnalato solo da Giorgio Pisanò nella sua Storia della Guerra Civile in Italia ma confermato anche dalle fonti antifasciste) a telefonare al comandante fascista della provincia di Novara, il prefetto Dante M. Tuninetti, per annunciargli di “tenere la piazza”.

Un esempio che illumina la personalità di Beltrami, ufficiale di vecchio stampo, borghese, cavalleresco e generoso. Una figura che ebbe grande ascendente sull’opinione pubblica locale e tra quegli ambienti cattolici e liberali che temevano i gruppi comunisti.

Beltrami ebbe rapporti addirittura amichevoli con Tuninetti ed altre autorità fasciste, tanto che i due si incontrarono a lungo arrivando ad una sorta di armistizio di fatto per l’assistenza alla popolazione locale che attraversava un periodo di grave penuria di generi alimentari.

Ritiratosi presto sulle montagne sovrastanti Omegna, Beltrami fu considerato un traditore da parte delle brigate garibaldine di Moscatelli per questi suoi buoni rapporti con le autorità nemiche e quando, poco tempo dopo, si ritrovò – come vedremo – circondato da forze soverchianti nell’abitato di Megolo (centro a mezza costa della bassa Valdossola, nel comune di Pieve Vergonte) nessuno corse in suo soccorso, tanto che morì insieme a numerosi suoi compagni (tra i quali Antonio Di Dio, fratello di Alfredo) dopo una dura lotta durata diverse ore, senza accettare le intimazioni di resa.

Fascisti e tedeschi che l’avevano circondato resero ai caduti – e l’episodio è veramente anomalo in una guerra civile – l’onore delle armi.

(1 – continua)

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